L’insostenibile leggerezza del colloquio di lavoro: se dopo trent’anni le domande sono ancora le stesse
È il 1984, Milan Kundera riempie le librerie di mezzo mondo col romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, a Stoccolma si fa il nome dell’italiano Carlo Rubbia per il Nobel per la fisica, e da qualche parte, negli Stati Uniti, la giovanissima Liz Ryan comincia una carriera nelle risorse umane che da allora non ha ancora visto la fine.
Tutto normale, verrebbe da pensare, solo vita che scorre. Se non fosse però che appena qualche tempo fa, sulle colonne di Forbes, la Ryan firmava un articolo nel quale spiegava, in altre parole, che se il mondo HR oggi fatica a stare al passo col mercato del lavoro, è anche – non solo, ma anche – per via di un approccio che dal 1984, cioè da quando lei ha fatto il suo ingresso in questo ambito, di fatto, è cambiato poco o niente.
E parla proprio di approccio Liz Ryan, quasi a sottolineare che gli strumenti, loro, in effetti sono cambiati eccome da trent’anni a questa parte. Ma la mentalità, il rapporto di forza che lega chi offre a chi cerca lavoro, e viceversa, ecco quello invece è ancora in larga parte dominato da retaggi superati dal tempo e pratiche in qualche caso addirittura obsolete.
Sul patibolo della Ryan, diventata nel frattempo una specie di guru delle risorse umane, è finito così il simbolo del processo di selezione, il metro di valutazione per eccellenza nelle mani di un recruiter, lo “stetoscopio” di ogni HR che si rispetti: il colloquio di lavoro.
È lì, infatti, a dare retta alla Ryan, che si anniderebbero le principali cause dietro l’arretratezza del sistema. Molte delle domande che si facevano nell’’84, e che erano superate già allora, si continuano a fare ancora oggi – è in sostanza il senso delle parole della scrittrice di Reinvention Roadmap. E se questo avviene, è la spia che qualcosa che non va nel metodo HR di oggi c’è eccome.
In realtà, di cose che non vanno, la Ryan ne elenca dieci. Dieci, quante le domande di un colloquio di lavoro che andrebbero subito eliminate dalla lista di ogni recruiter che riconosce un certo appiattimento nel proprio metodo.
Perché? Semplice: perché non servono più a niente. E non servono più perché fanno riferimento a un’idea di colloquio di lavoro completamente fuori dal tempo. Questo tempo. Perché sottintendono un mondo dove chi offre lavoro è una specie di giudice severo a cui tutto è concesso e il candidato invece lo sventurato di turno a cui si può chiedere di tutto e al primo sopracciglio alzato arrivederci e tante care cose.
Inutile dire che il mercato del lavoro non è più quello da un pezzo. Eppure, tra i tanti aspetti che sapevamo già, Liz Ryan una cosa che non conoscevamo ancora l’ha fatta: ha chiamato le cose col proprio nome. Dando una forma cioè alle domande a cui, come primo atto alla base della rivoluzione del proprio modello di lavoro, ogni HR dovrebbe a suo avviso imparare a dire addio. Un suggerimento per fare in modo che i colloqui non siano più delle prove di abilità – o, peggio, dei plotoni d’esecuzione – alle quali i candidati interessati al posto devono sottoporsi, ma delle semplici e più efficaci e quindi più utili conversazioni informali a scopo professionale.
Eccolo allora l’elenco della Ryan con le dieci domande che un HR non dovrebbe più rivolgere a un candidato in sede di colloquio di lavoro.
1. Qual è la tua più grande debolezza? (la Ryan spiega che la domanda, posta in questi termini, sia invasiva, e non serva neanche granché a capire il valore effettivo del candidato)
2. Dove ti vedi tra cinque anni? (cinque anni, oggi, non sono cinque anni di trent’anni fa. Magari si può ottenere la stessa risposta, o forse una perfino migliore, provando a chiedere che carriera si immagina quando pensa alla sua)
3. Perché dovremmo assumerti? (e se non fosse più giusto ribaltare la domanda, si interroga la Ryan, e chiedere al candidato in che modo crede di poter essere d’aiuto a una realtà come la nostra?)
4. Che studi hai fatto al liceo? (dopo il primo inserimento, spiega la Ryan, questa domanda non ci dice più granché di un candidato. Meglio puntare sulle competenze acquisite anche in piccoli mansioni svolte)
5. Cosa direbbe il tuo ex capo di te? (non conosciamo quel capo, allora tanto vale chiedere quali aspetti del suo precedente modello di lavoro lo hanno colpito positivamente e quali no)
6. Quali sono tre aggettivi che ti descrivono? (ricevere una risposta originale e del tutto onesta a questa domanda non è mai un affare semplice, in più la descrizione potrebbe non valere in una realtà per lui inedita, come potrebbe essere la nostra)
7. Con quali altre aziende sei in contatto? (a chi non piacerebbe saperlo? Come pure a che cifre si sta trattando con altri, ma semplicemente non si chiede. Concentriamoci su cosa possiamo offrire sulla base del nostro bisogno e della risorsa che abbiamo di fronte, sostiene la Ryan)
8. Quanto percepisci ora? (vedi parentesi precedente)
9. Perché vuoi lavorare qui? (in realtà, spiega la Ryan, il candidato potrebbe ancora non volerlo. Facciamo in modo in questo colloquio di fargliela venire quella voglia, e al prossimo, se mai ce ne sarà uno, ci faremo dire cosa gli piace della nostra realtà vista dall’esterno)
10. Potessi essere qualsiasi tipo di animale, che genere saresti? (la Ryan ha un approccio molto netto sulle domande troppo vaghe e che toccano aspetti aleatori come la personalità del candidato. Meglio focalizzarsi sulle competenze professionali e sul come poterne trarre vantaggio)
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