Lunga vita al candidato escluso: da incognita ad ambasciatore dell’employer branding

C’è un dato che accomuna ogni annuncio di lavoro. Questo: il 99% dei candidati non avrà quel posto. Eppure, anche di fronte a un rapporto che di suo non lascerebbe spazio a fraintendimenti, si consuma spesso uno dei più grandi misteri del mondo delle risorse umane. E questo perché, pure davanti a una sproporzione così netta, alla fine, a orientare la direzione, ad assorbire la quasi totalità delle energie, e a canalizzare la fetta più consistente delle risorse del lavoro di un HR che si rispetti, è quasi sempre e solo quell’1%. Buffo, no?

Soprattutto perché è invece tutto quello che resta al di fuori, cioè l’altro 99% (novantanovepercento!), a giocare un ruolo cruciale nel consolidamento e nella valutazione complessiva di una buona strategia di employer branding.

Ignorare infatti che la quasi totalità delle professionalità coinvolte in un processo di recruiting, anche dei più semplici, rappresenti un potenziale, immenso patrimonio in termini di employer branding, significa prima di tutto negare il principio stesso che sta alla base di questa definizione. Per rendersene conto, basterebbe forse soltanto un supplemento di analisi su quel dato. Partendo da una domanda semplice, quasi elementare. Chi c’è dietro quel 99%?

Risposta articolata: una quota, probabilmente composta da candidati che non saranno mai reclutati poiché le loro competenze si distanziano troppo dal tipo di professionalità ricercata; un’altra porzione, da candidati che restano solo potenziali, cioè profili spendibili nell’ottica di una selezione futura, e poi c’è la sacca più consistente. Vale a dire quella che da sola tiene in piedi la validità del principio di employer branding. Ossia quella composta da candidati occasionali, che per il resto del tempo sono però più o meno direttamente collegati all’azienda. In altre parole, tutte persone che vivono, probabilmente lavorano a contatto col nostro settore, e che, sopra ogni cosa, condividono le loro esperienze col resto del mondo.

Risposta breve: c’è il vostro modo di intendere le relazioni umane.

Empatia, dunque: ecco cosa serve per instaurare una sana e robusta strategia di employer branding. Già, ma come mettere in gioco questo fattore in un annuncio di lavoro? Come far emergere un tratto quasi intimo nell’economia di un didascalico, ampolloso e spesso asettico frasario da HR?

Le strategie sono molte, e infiniti i modi di declinarle. Tanto per cominciare, occorre ingaggiare una relazione con ogni candidato escluso, che dal momento in cui viene riconosciuto tale diventa ambasciatore naturale del vostro employer branding. A patto però che si sia sentito in qualche modo “vicino” all’azienda durante tutte le fasi del processo di recruiting. Ecco perché diventa di fondamentale importanza cambiare l’approccio verso chi, quel posto, non l’ha avuto.

Circa due terzi delle candidature restano infatti senza risposta. E quando risposta c’è, il più delle volte ha la forma di una lettera-tipo. Una roba fatta tanto per fare. Una concessione che bastava al candidato escluso fino a quanto?, una quindicina di anni fa?, ma che oggi lo esaspera. Con l’aggravante che un candidato esasperato, oggi, con in mano gli strumenti che la tecnologia gli ha offerto, rischia di essere molto meno tenero verso l’azienda che l’ha rifiutato che non in passato. Chi offre la propria professionalità a un’impresa, accetta anche di non farne parte, ma si aspetta da questa il più alto livello di comprensione. Soprattutto in caso di mancato accordo.

Personalizzazione che si traduce nella migliore risposta possibile.

Insomma, spiegatemi perché non mi avete preso, o penserò che il problema siete voi.