E se la talent scarcity fosse la migliore opportunità di re-engagement?

La retorica secondo cui “da una grande crisi deriva sempre una grande opportunità”, va presa per quella che è: retorica. Eppure, se parliamo di talent scarcity, forse qualcosa di vero, in questa retorica, stavolta c’è. Davanti alla più grande sfida che coinvolge le organizzazioni di tutto il mondo, costrette a darsi battaglia per talenti che non si trovano, e che quando si trovano sono sempre più difficili da trattenere, bisogna infatti riconoscere che almeno una grande opportunità esiste.

E se non vogliamo chiamarla opportunità, dobbiamo almeno riconoscere che si tratta di un ottimo pretesto. Perché col pretesto della talent scarcity, appunto, le direzioni HR di quelle organizzazioni rimaste più indietro nello sviluppo di modelli organizzativi ispirati alla New Way of Working, hanno davvero una straordinaria occasione. Quella di recuperare un po’ del terreno perso sulla strada della competitività rispetto alle loro dirette rivali.

Talent scarcity: i numeri di una strana penuria di talenti

L’impressione è che, un po’ come accaduto per la Great Resignation, con la talent scarcity stia avvenendo la stessa cosa. Quando esplose l’ondata delle cosiddette “grandi dimissioni”, per mesi ci siamo interrogati su quale sarebbe stata la portata reale di quel fenomeno. Un fenomeno, va detto, che nessuno riusciva a osservare nella sua complessità. Ora invece conosciamo bene i problemi delle organizzazioni nel reperire sul mercato i talenti con il giusto fit, ma sappiamo altrettanto bene quanto sia complicato oggettivare l’impatto che questi problemi generano sulle strategie aziendali. E allora, per provare ad osservare il fenomeno dalla stessa angolazione, proviamo a capire di cosa parliamo, davvero, quando parliamo di talent scarcity.

A venirci in soccorso sono i numeri raccolti dal sistema informativo Excelsior, realizzato come ogni anno a quattro mani da Unioncamere, l’organizzazione che riunisce tutte le camere di commercio d’Italia, e Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Nell’ultimo bollettino emerge infatti un quadro molto meno astratto di questa strana penuria di talenti che sta caratterizzando il mercato del lavoro.

Secondo lo studio, gli effetti della talent scarcity, ovvero della difficoltà di reperimento dei giusti candidati da parte delle aziende, sono in aumento per quasi tutti i profili professionali. Stando ai numeri, sono quasi 2 milioni le assunzioni programmate per le quali le organizzazioni hanno confermato di aver avuto difficoltà a individuare il giusto candidato. Si tratta il 45,6% del totale delle assunzioni registrate nell’arco di dodici mesi.

Il contesto, in cifre:

  • 2 milioni: il numero di ricerche che in un anno non sono andate a buon fine
  • + 45,6%: la percentuale delle selezioni che non hanno dato i risultati sperati
  • + 7%: la percentuale delle ricerche “problematiche” sull’anno precedente
  • 1 milione: il numero di selezioni con difficoltà nel periodo pre-pandemico

Insomma, quasi una selezione su due non è andata a buon fine. O comunque ha conosciuto serie difficoltà. Rispetto alla rilevazione fatta dodici mesi prima, siamo intorno a un + 7%. Tanto. Ma comunque ancora niente, verrebbe da dire, se confrontiamo il dato con il periodo pre-pandemico. Cioè quando la soglia delle selezioni complicate si attestava “appena” intorno al milione di unità. Fatti due conti, siamo quasi al doppo.

Skill e talent shortage: quali sono i settori più colpiti

Altro aspetto interessante della talent scarcity, è quello legato ai settori più impattati. Nel documento di Anpal e Unioncamere appare chiaro come le organizzazioni più colpite siano quelle che hanno bisogno di figure molto qualificate.

Tra i settori maggiormente coinvolti troviamo quelli a caccia di laureati in indirizzo sanitario/paramedico, per cui la difficoltà di reperire sul mercato un candidato con le giuste competenze raggiunge il 65%. Seguono i laureati in ingegneria elettronica e dell’informazione, con il 61%. Tallonati dai dottori in scienze matematiche, fisiche e informatiche, la cui disponibilità sul mercato è talmente complicata da raggiungere una percentuale del 60%. Chiudono la classifica i profili specializzati in indirizzo elettrico, al 57%, e quelli con laurea in meccanica, meccatronica ed energia, per i quali la difficoltà raggiunge una percentuale del 56%. Ricapitolando:

  • laureati in indirizzo sanitario/paramedico (65%)
  • laureati in ingegneria elettronica e dell’informazione (61%)
  • laureati in scienze matematiche, fisiche e informatiche (60%)
  • laureati in indirizzo elettrico (57%)
  • laureati in meccanica, meccatronica ed energia (56%)

Si scrive talent scarcity si legge re-engagement

In uno scenario di questo tipo, con numeri di questo tipo, è chiaro che per le organizzazioni la strada di ogni selezione si preannuncia in salita. Il rischio di non riuscire a ridurre il time to hire, anzi di veder aumentare i costi di ogni processo di selezione, sono altissimi. Già in passato abbiamo affrontato il tema di come sviluppare strategie per rendere più efficace il processo di assunzione delle risorse, stavolta invece vogliamo partire da un presupposto diverso. Ovvero come trasformare la talent scarcity in un’occasione di re-engagement per i collaboratori. Per farlo, abbiamo individuato cinque diversi percorsi. Vediamo insieme quali:

  • Ripartire dalla mobilità interna
  • Puntare su un welfare più “diretto”
  • Ripensare la selezione basandola su altri requisiti
  • Costruire una (nuova) Corporate Social Responsability
  • Fermare l’emorragia di talenti

Proviamo ad analizzarli brevemente uno ad uno.

Ripartire dalla mobilità interna

Inutile dire che la prima risposta alla talent scarcity passa dalla mobilità interna. Tranquilli, non siamo così naïf: sappiamo perfettamente che non tutte le organizzazioni hanno in organico risorse adeguate a colmare il gap di competenze tra profili molto diversi tra loro. Per questo, quando parliamo di mobilità interna, qui ci riferiamo a quel tipo di mobilità che di solito segue articolati piani di upskilling e reskilling dei collaboratori. Adottare programmi di orientamento e mentoring personalizzato non soltanto permette ai profili di crescere, e quindi di sentirsi più coinvolti e motivati, ma offre all’organizzazione un’opportunità cruciale per risolvere il problema della talent scarcity alla radice.

Puntare su un welfare più diretto

Il corporate wellbeing definisce e migliora l’employee value proposition dell’organizzazione: per questo motivo potrebbe, anzi dovrebbe essere usata anche come “arma” per attenuare gli effetti della talent scarcity. Ripensare il proprio piano di welfare aziendale puntando su benefit più diretti e in linea con i bisogni delle persone (sia quelle interne che quelle esterne all’azienda), può infatti aiutare gli HR a rendere gli annunci di lavoro decisamente più appetibili. E con loro l’organizzazione stessa.

Ripensare la selezione basandola su altri requisiti

A volte il problema della talent scarcity sta all’origine del processo di selezione. Come se fosse scolpito sulla pietra, per molte imprese non può esserci un determinato ruolo senza un determinato percorso accademico. O non si procede all’assunzione di una risorsa se non ha alle spalle in quel ruolo un numero di anni sufficienti a dimostrarne l’assoluta affidabilità. E se invece approfittassimo della penuria di talenti per ribaltare la logica e ripensare la selezione basandola su altri requisiti? Così facendo, oltre ad aprire la selezione esterna anche a profili con percorsi non necessariamente “canonici”, le stesse risorse interne avrebbero più opportunità di fare qualche “passo di lato” nell’organizzazione, acquisendo nuove competenze e sentendosi naturalmente più incluse e motivate.

Costruire una (nuova) Corporate Social Responsibility

Il principio è lo stesso del welfare aziendale, perché anche la responsabilità sociale d’impresa può essere definito a tutti gli effetti un bisogno emergente. Le nuove generazioni di talenti riconoscono e apprezzano l’impegno che le organizzazioni stanno mettendo in campo per essere più moderne, inclusive e con un commitment sociale di un certo tipo. Dal canto loro, ricambiano questo impegno con una maggiore indulgenza in fase di assuzione. Molto spesso la talent scarcity è solo la risposta che il mercato offre a imprese non sempre stimoltani sotto troppi punti di vista. Compreso quello sociale. Inutile dire che tutto quello che viene comunicato all’esterno, avrà un impatto interno – in termini di retention – incalcolabile.

Fermare l’emorragia di talenti

E se prima di parlare delle difficoltà di trovare sul mercato nuovi talenti non parlassimo della capacità delle organizzazioni di trattenere – o, se preferite, di continuare ad attrarre – i propri collaboratori? Perché la vera sfida delle direzioni HR, parlando di talent scarcity, sta quasi tutta lì. E arrivati a questo punto lo avrete anche capito: il primo passo per affrontare la penuria di talenti esterna all’azienda è analizzare il modo in cui vengono coinvolti e valorizzati quelli che la vivono all’interno tutti i giorni. “Quanto la mia organizzazione è davvero people centered?”, dovrebbero chiedersi gli HR prima di avviare un processo di selezione. In fondo, partire dai talenti che ci sono è il modo più giusto per affrontare il problema di quelli che mancano.

Non permettere alla talent scarcity di impattare sul business della tua organizzazione

E se la talent scarcity fosse davvero la migliore opportunità di re-engagement dei collaboratori? In questo articolo bbiamo appena visto in che modo è possibile attenuare l’impatto di questo fenomeno all’interno delle aziende. Ma se la ricerca dei talenti resta un problema per la tua organizzazione, non aspettare di vederne gli effetti sul business. Con la soluzione Pay For Performance, gli specialisti Monster sapranno guidarti nella definizione di una efficace strategia di recruiting, proponendoti una soluzione flessibile e ready to go. Smetti di pagare il prezzo di un mercato che fatica a esprire i talenti che cerchi. Paga solo quelli che trovi.