Il recruiting scopre il “ghosting”

Un tempo abitudine dei profili junior, ora la tendenza ad abbandonare la selezione contagia anche manager e ruoli più senior. L’unica difesa del recruiter passa attraverso una migliore candidate experience.


Bisognerebbe essere avvezzi alle app di dating, per capire cos’è che si prova. Perché il fenomeno parte da lì. E questo gli HR dovevano pur aspettarselo. Insomma: se mutui nel tuo universo
usi e costumi che arrivano da un’altra galassia, non è che poi, ai primi contrattempi, puoi fare finta di niente.

Così ora anche i recruiter scoprono il “ghosting”. Anglicismo perfetto per descrivere l’attitudine, diffusa proprio negli ambienti del dating online, di “scomparire”; cioè rendersi irreperibili, senza un motivo apparente, di fronte al proprio “partner occasionale”. 

Nel recruiting funziona così: pubblichi l’annuncio, contatti il candidato che ti pare più interessante, lo ingaggi, discuti con lui della posizione e dell’offerta, lo convochi, ti piace, chiarisci qualche aspetto, spazzi via quelle due/tre perplessità che possono sorgere (intanto sono passati giorni); e quando sei lì lì per concludere l’accordo e passare alle formalità, t’accorgi che il candidato non c’è più. Pouf: scomparso. Svanito. Di colpo. Dove? Nel nulla. Nel senso che scrivi e non risponde. Chiami e ti ha bloccato (quando ti va bene: quando ti va male, semplicemente, ti ignora).

Conosciamo l’obiezione: messo giù così questo “ghosting” ha l’aria di non essere niente di originale. Al massimo, sembra la versione 2.0 di quello che è sempre successo nella ricerca e selezione con i profili più junior. Vero, se non fosse che sta proprio tutta qui la novità.

Se a dissolversi nel nulla dopo il colloquio, o a lasciare a metà il processo di selezione, un tempo erano quasi esclusivamente i candidati destinati a posizioni per definizione poco allettanti e più precarie (la logica era: per ora ascolto cosa hanno da dirmi e intanto vado avanti con la mia ricerca), oggi la tendenza si è estesa a macchia d’olio su tutto l’arco professionale. Finendo per investire anche i profili più senior, quando non direttamente i manager. Favoriti da un mercato abbastanza dinamico per le figure di vertice e da un sostanziale disallineamento tra domanda e offerta circa le funzioni ad alto valore aggiunto.

Un problema non proprio da niente, che turba i sonni di un’intera categoria (il fenomeno, va detto, non è soltanto italiano) e regala al recruiter moderno il più clamoroso dei contrappassi possibili: a chiedere un feedback post colloquio, adesso, è chi il lavoro lo offre!

Esiste, certo, una via d’uscita possibile. Ma mai come stavolta passa per un netto cambio di paradigma imposto alle aziende. Realtà ancora poco coscienti dell’importanza assunta dalla candidate experience nel recruiting moderno. Tradotto: più sensibilità del recruiter alla componente umana durante l’intera fase di selezione.

È consigliabile che il recruiter ingaggi da subito col candidato una “relazione” franca, basata sulla chiarezza dell’offerta garantita. Ma questo, da solo, potrebbe non bastare. A una maggiore trasparenza, il selezionatore sommi pure il bisogno di sollecitare, molto più che in passato, le corde della motivazione nel profilo scelto. 

In ultimo, la creazione di percorsi personalizzati su ciascun candidato selezionato potrebbe fare la differenza. In altri termini, si potrebbe costituire una rete di attenzioni specifiche attorno a ciascun profilo: un “engagement sartoriale” che dimostri fin da subito lo spessore dell’azienda e faccia sentire la risorsa non più soltanto parte di un processo che si ripete sempre uguale, bensì l’elemento esclusivo di un complesso ingranaggio che si rinnova – diverso – ogni volta. 

Ai candidati “fantasma” si risponde con un recruiting due volte più umano.

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