Il benessere in azienda sta diventando un diritto

È giusto considerare un diritto il benessere in azienda? No, aspettate un istante, chiariamo prima una cosa: qui non ci stiamo chiedendo se sia giusto – oppure no – che il benessere delle persone diventi un diritto all’interno delle organizzazioni.

Quello che ci interessa capire è un’altra cosa. Ed è questo: se sia o meno il caso di definire diritto (di chiamare diritto) quello che oggi si intende parlando di benessere in azienda. Ovvero se sia il caso di farlo, visto il modo in cui, a partire dalla fine della pandemia, il tema del benessere dei lavoratori viene percepito e vissuto nella stragrande maggioranza delle imprese.

In altre parole, quello che vogliamo indagare è se l’attenzione delle aziende per tutto ciò che riguarda il benessere delle loro persone lo renda – di fatto – già un diritto. Un diritto acquisito sul campo, naturalmente, senza bisogno di battaglie sindacali o interventi del legislatore. Perché in quel caso sarebbe formalmente già un diritto e non avrebbe senso chiederselo.

Qui, insomma, vogliamo sapere se il tema del benessere in azienda, da quando c’è stata la pandemia, possa essere considerato un cambiamento strutturale introdotto nel mercato del lavoro (quello che stiamo chiamando “diritto”) o se invece si tratti di una moda passeggera.

Ecco, cerchiamo di capirlo insieme.
Cosa intendiamo per benessere in azienda?
Intanto, però, per arrivare alla domanda da cui siamo partiti – se sia giusto considerare o meno un diritto il benessere in azienda – la prima cosa che dobbiamo fare è metterci d’accordo. E darci delle regole.

Partiamo quindi dalla cosa più importante. Partiamo dalla definizione. E allora: di cosa parliamo, esattamente, quando parliamo di “benessere in azienda”?
Cinque dimensioni di benessere in azienda
Una domanda che può sembrare banale, ma che non lo è. Perché dalla risposta che ne deriva possiamo capire più facilmente se è corretto attribuire a “quella cosa lì” (cioè al modo in cui le aziende stanno iniziando a prendersi cura dei propri lavoratori) la valenza di diritto.

Per questo non possiamo non ricordare che il benessere in azienda, pur essendo in teoria una sola cosa, nella pratica si declina sul lavoro in almeno cinque modi diversi:

● benessere psico-fisico
● benessere relazionale
● benessere economico
● benessere conciliativo
● benessere cognitivo
Molto più che welfare aziendale.
Partendo da questo principio, sgombriamo il campo e diciamo subito che per benessere in azienda intendiamo qualcosa che va oltre la definizione di welfare aziendale.

Piuttosto, parliamo dell’insieme di misure offerte dall’organizzazione ai propri collaboratori per permettere loro il raggiungimento di ognuna di queste dimensioni del benessere. Vediamole nel dettaglio:

1. Benessere psicofisico: è quel benessere che si manifesta nella capacità di agire con energia e di compiere scelte sane sia all’interno che all’esterno del contesto organizzativo.
2. Benessere relazionale: si riflette nei rapporti e nelle relazioni che la persona sarà in grado di sviluppare al lavoro e fuori.
3. Benessere economico: si raggiunge nella capacità di amministrare con sicurezza le proprie finanze e pianificare il futuro senza troppi patemi.
4. Benessere conciliativo: è quello che attiene alla capacità di saper conciliare vita e lavoro; ha come obiettivo una reale armonia tra tempo per sé e tempo per l’azienda.
5. Benessere cognitivo: è quello legato allo sviluppo di nuove competenze personali e professionali, ovvero la capacità di evolvere come persona e come professionista.
Come nasce il “diritto” al benessere.
Come provider di servizi per le risorse umane, in Monster sappiamo bene che molti dei cambiamenti portati dalla pandemia le divisioni HR li hanno subìti, anziché guidati. E il tema del benessere dei lavoratori va senz’altro incluso tra questi.

Non eravamo ancora fuori dalla fase critica dell’emergenza, che già era cambiata la sensibilità dei professionisti rispetto ai temi della sicurezza sul lavoro e degli equilibri psico-fisici. Ed era solo l’inizio. Ben presto persone di tutte le età – e in tutti i ruoli – hanno iniziato a chiedersi se fosse giusto “sacrificare” il proprio tempo e la qualità della propria vita per un lavoro che desse loro in cambio “soltanto” uno stipendio.

Poi la pandemia è finita, ma i vantaggi diretti e indiretti portati dallo smart working in termini di work-life balance hanno fatto andare in crisi milioni di persone in tutto il mondo. Da allora abbiamo fatto esperienza di fenomeni come Great Resignation e Quiet Quitting. Perché ve ne parliamo? Perché è esattamente in questo clima che va cercata la risposta alla domanda da cui siamo partiti.
Il wellbeing è (ormai) una priorità per i lavoratori.
Perché il benessere in azienda, prima ancora che per le organizzazioni, è diventato una vera priorità per i professionisti. Una specie di diritto acquisito, appunto. Anzi, possiamo dire che l’attenzione con cui le imprese hanno iniziato ad occuparsi del benessere delle proprie persone sia una diretta conseguenza di questa consapevolezza nata nei lavoratori proprio durante i mesi più critici della pandemia.

Se vogliamo, è la risposta che le divisioni HR più lungimiranti – e a cascata poi tutte le altre – da allora stanno mettendo in campo per provare a mitigare gli effetti di quei fenomeni che rischiano seriamente di compromettere la competitività (quando va bene) o la sopravvivenza (quando va male) delle loro stesse organizzazioni.
Il benessere di oggi è People Caring a 360 gradi.
Domanda: ma se il tema è far stare bene le persone al lavoro, allora perché non tornare a parlare semplicemente di welfare aziendale? Risposta. Perché tra i meriti che le vanno riconosciuti, la pandemia ci ha sicuramente lasciato anche la consapevolezza che il sistema di welfare aziendale – così come lo intendevamo prima dell’emergenza Coronavirus – non poteva più funzionare.

Troppi i nuovi bisogni dei collaboratori a cui dover dare risposta con gli strumenti del welfare pre-pandemico. Per questo le organizzazioni che si sono mosse per prime lo hanno fatto nel solco di piani integrati di corporate wellbeing pensati per tenere insieme tutte o quasi le nuove esigenze manifestate dai lavoratori.

Così dai semplici flexible benefit (che hanno comunque visto aumentare esponenzialmente la loro quota, oltre agli ambiti di intervento), siamo arrivati a un supporto a 360° per lavoratori e famiglie.

Ci sono misure per il miglioramento del work-life balance, con soluzioni ad hoc offerte ai lavoratori con figli, o per quei professionisti che sono anche caregiver, cioè che devono prendersi cura di un familiare malato o non autosufficiente. Sempre più frequenti sono poi anche le soluzioni dedicate al health&wellness, nonché le inizitive di supporto ai carichi emotivi e in generale alla mental health dei professionisti. Senza contare le misure a sostegno della diversity & inclusion e all’engagement delle proprie risorse.
Cosa c’è in un piano integrato di benessere in azienda:
● flexible benefit
● supporto per i lavoratori con figli
● sostegno ai caregiver
● misure dedicate all’health&wellenss
● iniziative per la mental health
● soluzioni per la diversity&inclusion
● azioni per migliorare l’engagement delle risorse
Non di solo benessere in azienda è fatta l’attraction.
Ecco in sostanza come il benessere in azienda, da bisogno di alcuni, sia diventato una specie di diritto di tutti. Riconosciuto tanto dai collaboratori, che lo cercano nelle offerte di lavoro, quanto dalle organizzazioni, che lo riconoscono come un valore da offrire al mercato.

Una strategia per restare competitivi in un contesto caratterizzato da livelli vertiginosi di talent scarcity, a cui molti responsabili HR vorrebbero affiancare anche dei piani di Employer Branding, se non fosse che i costi e le risorse a disposizione rendono l’impresa difficile.

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