L’Istituto Italiano di Tecnologia: l’angolo d’Italia dove la natura riscrive i suoi limiti

La spinta verso l’alto, che in certi quartieri di certe città a strapiombo sul mare da sempre mette insieme le cose e le persone, a Bolzaneto, località nel primo entroterra genovese, la trovi scomposta in varianti infinite. Sulle facciate dei palazzi e nelle braccia meccaniche delle gru poco distanti. Nelle cappe fumanti di alcune industrie appena al di qua del mare e sulle pile di container corrose dal sale e dal sole e con ordine tenute a riposo. Nel segreto del sali scendi perpetuo di un ascensore, e nelle ambizioni di chi ci si accompagna decine di volte ogni giorno.

Perché se lavori in un laboratorio di una sessantina di metri quadri circondati da prototipi sofisticati e apparecchiature fragili come le ossa che devono sostenere, al quarto piano di un palazzo di sette livelli terrazza compresa, pure il talento impari a misurarlo così: soppesando la forza propulsiva di un’immaginazione che nasce e finisce nell’uomo, ma che nel mezzo è obbligata a correggerne l’imperfezione e a superarne i limiti.

È qui che incontriamo Nicolò e Maria Laura, due tra i più giovani ingegneri impegnati nel campo della robotica riabilitativa nel Rehab Technologies Lab, il laboratorio congiunto dell’Istituto italiano di tecnologia e INAIL. In due non arrivano a 60 anni. Così, la prima cosa che facciamo, è chiedere loro d’istinto di spiegarci cosa si fa in questo microscopico angolo di mondo proteso verso la perfezione.

 

 

Nicolò: Come prima cosa descriverei Rehab Technologies come un contesto che ha per fine quello di aiutare l’uomo. Perché qui è questo che facciamo: grazie alla tecnologia e alle nostre competenze proviamo a risolvere i problemi di chi, nella vita di tutti i giorni, è costretto a fare i conti con disabilità più o meno invalidanti. Provando a migliorare le loro condizioni di vita.

Maria Laura: Più nel dettaglio, quello che facciamo è occuparci, in collaborazione con l’Inail, della progettazione e della prototipazione di nuovi dispositivi medicali, ma anche protesi o esoscheletri. In particolare, io poi testo anche questi prototipi sulla persona. E questo per valutare, seguendo i loro progressi, i risultati concreti dei nostri progetti e capire a che punto siamo con l’obiettivo che ci siamo posti.

 

Quindi c’è, in chi lavora per Rehab Technologies all’IIT, la sensazione che il risultato di questo lavoro avrà un impatto enorme sulla vita delle persone?

Nicolò: Lavoriamo solo per quello. Il percorso fatto negli ultimi tre anni lo dimostra. Certo, sappiamo bene che il nostro lavoro, come ogni lavoro tecnologico, ha dei limiti oltre i quali non ci si può spingere. Come nel caso dell’esoscheletro. Sappiamo che non restituiremo la completa funzionalità degli arti a chi ne farà uso, ma sapere che grazie a questo impianto chi è affetto da una disabilità importante potrà tornare a svolgere molte attività fino ad oggi precluse, ci riempie di soddisfazione.

Maria Laura: Vero. In più sulla base dei progetti recenti abbiamo avuto dei buoni riscontri rispetto all’incidenza del nostro lavoro sulla vita dei pazienti che hanno testato i dispositivi realizzati. Ci aspettiamo che anche per i prossimi progetti i risultati siano in linea.

 

Visto da fuori, per molti, l’Istituto italiano di tecnologia è un centro di eccellenza, in un certo senso la risposta italiana al problema dei “talenti in fuga”, ma per chi come lo vive tutti i giorni, questo istituto che cosa rappresenta?

Maria Laura: Un’occasione di crescita costante. In IIT ogni giorno ci sono nuove sfide da affrontare e questo aspetto, per un neolaureato, è fondamentale. In questo momento, lavoro su diversi progetti contemporaneamente, e questo aiuta molto a crescere e sviluppare competenze. Quando entri in IIT cominci a fare i conti con tante sfide, ma in cambio hai anche tante soddisfazioni.

Nicolò: Questo istituto rappresenta una realtà come ce ne sono poche in Italia. Perché è un polo di eccellenza nel quale non soltanto i talenti italiani trovano il loro spazio, e quindi non sono costretti a dover vendere le proprie competenze all’estero, ma che attinge anzi dall’estero i migliori talenti. Una buona percentuale di miei colleghi, qui all’IIT, infatti, è straniera.

 

Ma come si finisce a lavorare per l’IIT? Uno deve partire con quell’obiettivo quando comincia gli studi, oppure può succedere per caso?

Maria Laura: Io ad essere onesti non sapevo neanche esistesse un posto così interessante quando ho cominciato gli studi. (ride) L’incontro con l’IIT è avvenuto per caso, dopo l’università di Bristol, mentre cercavo sul web posizioni aperte per l’ambito biomedico, che della tecnologia è sempre stato quello per il quale mi sarebbe piaciuto lavorare. Ma è stato solo durante il dottorato di ricerca, svolto proprio qui all’IIT, che sono entrata in contatto per la prima volta con questa realtà. Oggi che questo è il mio posto di lavoro sento che sto mettendo davvero a frutto tutte le competenze acquisite durante il percorso universitario e di dottorato.

Nicolò: Un caso. E per me che sono di Genova, anche una piacevole sorpresa. Appena uscito dall’università ho scelto l’estero inizialmente per la tesi e poi sono finito a fare un’esperienza di un anno al Cern. Sapevo dove volevo andare, ma è per caso che mi sono ritrovato qui all’IIT. Un ambiente che per molti aspetti, dall’interdisciplinarietà della struttura al respiro internazionale dei collaboratori, mi ricorda molto il Cern.

 

Ecco, appunto. Capitolo colleghi. Uno dice IIT e si immagina una struttura fredda”, in cui tutto il giorno si fanno calcoli e ci si esprime in codici. È così o c’è spazio per l’elemento umano da queste parti?

Nicolò: Uno degli aspetti che più mi ha sorpreso una volta entrato all’IIT è stato proprio questo. L’elemento umano è forse una delle componenti più importanti qui dentro. Perché dovendo spendere buona parte del tuo tempo sul luogo di lavoro, è fondamentale che con i colleghi si instauri da subito un rapporto che vada al di là dei progetti. E qui è avvenuto istintivamente. Forse proprio per via dell’elevato numero di stranieri nell’istituto. Fatto sta che durante le pause ci si vede a piccoli gruppi e si organizzano attività che ci impegnano fuori dal contesto lavorativo. E questo affiatamento credo poi abbia delle ripercussioni anche sull’attività che facciamo.

Maria Laura: Assolutamente sì. È vero, all’esterno c’è questa percezione di un grande centro di ricerca in cui si lavora freneticamente in diversi settori, in cui si ottengono risultati che sono veri e interessanti, ma c’è un aspetto umano fondamentale da considerare. Sin da quando sono entrata ho trovato colleghi che mi hanno fatto inserire nel gruppo in maniera piacevole.

 

E quindi, insomma, in un concetto, perché un giovane ingegnere dovrebbe lavorare all’IIT?

Maria Laura: Per la dinamicità dell’ambiente. Perché ogni giorno ti mette di fronte a nuove sfide da risolvere. Tanti stimoli per migliorarti e per fare sempre meglio il tuo lavoro. Ai miei occhi questa mi sembra la migliore ragione possibile.

Nicolò: Perché qui c’è tutto quello di cui un neolaureato ha bisogno per imparare. E perché non sono molte le aziende il cui obiettivo è realizzare prodotti che migliorino la vita delle persone.