Contro lo smart working

 

Ci sono quelli che si collegano dal bagno. Quelli che restano in pigiama tutto il giorno. Quelli che dimenticano di disattivare il microfono quando rimproverano i figli. Quelli che, semplicemente, spengono la telecamera e continuano a farsi gli affari propri. Ma poi ci sono anche quelli che si scoprono al computer fino all’una di notte.
Che saltano il pranzo. Che non riescono a staccarsi dal progetto perché la scadenza è imminente e il senso di responsabilità li opprime. Quelli per i quali, insomma,
questo smart working è diventato un problema, invece dell’opportunità che dovrebbe essere.

C’è molta letteratura sugli effetti che il pandemico ricorso al cosiddetto lavoro agile produce sulle famiglie. E prima ancora, sugli individui che quelle famiglie compongono. L’impressione che se ne ricava è quella di una crisi di rigetto. Talvolta lieve, talvolta più evidente e invalidante. Di sicuro fisiologica, e ogni tanto bisognerà pure ricordarlo: qui il paziente ha subìto un trapianto al cuore del suo modello di lavoro.

 

I “sintomi” del New York Times

Il New York Times l’ha messa giù proprio in questi termini: e se lo smart working ci facesse male? Così ha chiesto il parere di alcuni esperti. Il risultato è stato sorprendente: molti smart worker non hanno retto – proprio fisicamente – allo choc del cambiamento improvviso. Con effetti tra i più disparati, tra l’altro: mal di testa, formicolio agli arti, problemi gastrointestinali, dolori al petto. “È il risultato dello stress da quarantena” ha spiegato Krisda Chaiyachati, direttore medico del Penn Medicine OnDemand Virtual Care.

Il quotidiano newyorkese ha poi scomodato anche Ronda Farah, dermatologa dell’University of Minnesota Medical School. E la diagnosi non è meno inquietante delle precedenti: molti lavoratori durante il lockdown hanno avvertito problemi alla pelle, ha spiegato Farah, in particolare per psoriasi, eczemi o acne cronica. Mentre alcuni hanno sperimentato perfino la caduta dei capelli.

 

Siamo tutti “zoom hangovers”

Discorso a parte meritano i meeting da remoto, molto praticati dai professionisti in smart working. Ecco, secondo gli esperti del National Geographic, gli effetti collaterali delle videochiamate sono piuttosto dannosi per il cervello. E questo perché costringono gli interlocutori a concentrarsi quasi esclusivamente sulle parole, trascurando la comunicazione non verbale. Un’attitudine che comporta, secondo quanto riferito da Andrew Franklin, esperto di cyberpsicologia della Virginia’s Norfolk State University, una richiesta di maggiore concentrazione all’apparato cerebrale. In pratica è per questo che in una conference call ci si stanca molto di più che in una riunione dal vivo.

E siccome da quando abbiamo incominciato a dare i nomi a tutto, con le patologie ce la siamo sempre cavata alla grande, da qualche tempo il quadro clinico di uno strafatto di conference call risponde pure a una denominazione precisa: zoom hangovers.

 

Addio alle relazioni umane e al capitale sociale

Ne fa invece una questione di relazioni umane il CEO di Microsoft, Satya Nadella. Che sulle colonne del NYT mette in guardia dai rischi che uno smart working prolungato può generare su manager e collaboratori. Cosa ne sarà alla lunga delle care, vecchie relazioni interpersonali se lavorassimo tutti da remoto?, si è chiesto, in sostanza, il numero uno del colosso tecnologico. “In questa fase in cui stiamo tutti lavorando da remoto – ha spiegato –  sento che forse stiamo bruciando parte del capitale sociale che abbiamo costruito”.

 

Lo smart working come ultimo discrimine “di classe”?

Il vero colpo di grazia allo smart working, però, lo ha sferrato Gianpiero Petriglieri, professore di Organizational Behaviour all’Insead (Institut européen d’administration des affaires). “Non vorrei che il cambiamento renderà l’ufficio solo una “questione per pochi”, dedicato a un gruppo manageriale ristrettoha dichiarato a Rivista Studiocon il rischio che le aziende assumeranno in remoto uno stuolo di freelance, sottopagandoli”. 

Una prospettiva che raggela il sangue e spinge a chiedersi se davvero dovremmo cominciare a considerare lo smart working come un nuovo, ulteriore discrimine “di classe”.