Talentismo o talentuosità

Talentismo o talentuosità?
di Stefano Greco

L' "employer branding" è diventato ormai un vero e proprio sport nazionale, per la verità più predicato che praticato. Al centro di molti convegni, libri, seminari ed anche di una certa propaganda politica, troviamo il tema dei talenti e di come attrarli con l'obiettivo di farli rimanere il più a lungo possibile in azienda o in Italia, se l'argomento è affrontato come "fuga di cervelli". Come è tipico di alcune mode manageriali o della retorica istituzionale, il discorso sui talenti è stato infarcito di paroloni e collocato all'interno di improbabili cosmogonie aziendali, senza entrare nello specifico di questioni pratiche e soprattutto senza porre opportune distinzioni come ad esempio: talentismo o talentuosità? Tuttavia, prima di rispondere all'amletico quesito, proviamo ad approfondire prima il concetto di talento, attraverso tre opportune domande:

  • 1) Chi è o chi possiamo considerare un "talento"?
  • 2) A cosa servono i "talenti" in azienda? O meglio: l'azienda ha veramente bisogno di spendere tanti soldi per attrarre e mantenere quel "talento"?
  • 3) Ipotizzando di aver attratto ed inserito un "talento", chi lo gestisce?

Rispondendo alla prima domanda, mi viene intanto il sospetto che qualcuno, pensando al concetto di talento, lo associ mentalmente a quello di genio oppure immagini una figura fiabesca che, arrivando dall'esterno sul suo cavallo bianco, risolva, in men che non si dica, i problemi dell'azienda.
In tale prospettiva, il talento è visto come una sorta di deus ex machina che, in virtù di qualità speciali, comprenda al volo la situazione ed intervenga in modo risolutivo.

Il motivo per il quale ho messo il termine talento tra le virgolette nelle domande è dovuto proprio all'ambiguità di fondo che lo caratterizza in termini concettuali. Probabilmente, siccome sappiamo che spesso la realtà supera la fantasia, figure taumaturgiche che arrivano in azienda e fanno miracoli esistono e meritano di essere chiamati geni. Ma sono appunto dei geni. Nella quotidianità, dal mio punto di vista, i talenti sono un'altra cosa. Possiamo definire talento chiunque raggiunga, nel suo lavoro, gli obiettivi assegnati, nei tempi e nei modi concordati.

Il talento è la persona che dimostra con i fatti di essere affidabile e rispettosa, di agire in modo etico. Il talento è la persona che ha voglia di crescere, che è ambiziosa ma non arrivista, che è disponibile senza essere uno zerbino. Il talento è chiunque abbia rispetto per i clienti e si orienti a loro in termini di qualità del servizio e di efficace propositività commerciale.

Una volta compreso chi possiamo considerare un talento, la risposta alla seconda domanda è semplice: i talenti in azienda servono a renderla e a mantenerla competitiva nel tempo. Una risposta che molti troveranno scontata ma i problemi in azienda nascono proprio quando iniziamo a dare le cose per scontate. In ogni caso, ho una bella notizia da darvi: le aziende hanno molti più talenti di quanto il management a volte possa pensare.
Loro sono già in azienda, basta soltanto cercarli, individuarli, ri-scoprirli, offrirgli una chance. Forse fino ad oggi sono stati considerati semplicemente come delle "risorse umane", la cui presenza era associata soltanto ad una busta paga. Provate invece a coinvolgerli, a fargli fare degli assessment per la valutazione del potenziale, a colloquiare con loro, ad ascoltarli e scoprirete che quello che andate faticosamente e dispendiosamente ricercando all'esterno, l'avete già dentro casa. Tra l'altro, potete usufruire del grande vantaggio che i vostri talenti conoscono l'azienda e anche molto bene. Magari hanno speso i migliori anni della loro vita nell'organizzazione e nessuno se ne è accorto.

Cambiate l'angolo visuale del concetto di talento e vi renderete conto che in ogni persona che lavora per o con voi c'è un talento da scoprire e valorizzare. Il vero talento è il bravo venditore che raggiunge il budget assegnato di vendita (e lo supera anche), è il commesso o la commessa del negozio che ci sanno fare con i clienti, è l'impiegato amministrativo cosí pignolo che non sbaglia un dato, è lí da venti anni e conosce vita, morte e miracoli dell'azienda; il vero talento è il capo magazziniere che si fa in quattro per gestire i ragazzi del magazzino ed assicurare che il carico/scarico delle merci avvenga ogni giorno senza problemi, è quel capo stimato ed apprezzato per le sue qualità umane, oltre che tecniche. Il vero talento può essere anche quel fornitore che da anni fornisce sempre un servizio impeccabile alla vostra azienda.

Augurandoci che queste riflessioni siano state chiare ed utili, siamo pronti per rispondere alla domanda numero tre. Ipotizziamo di avere l'esigenza che nella nostra squadra lavori un fuoriclasse, un talento con la T maiuscola. Abbiamo bisogno, ad esempio, che un "Valentino Rossi" corra per/con noi. La terza domanda pone un quesito tanto scomodo quanto ineliminabile: una volta che abbiamo fatto "employer branding", ovvero abbiamo attratto a suon di euro e di benefit il nostro talento, chi gestisce "Valentino Rossi"? In altre parole: il manager che avrà il compito di inserire ed integrare il talento neoassunto nella funzione a lui assegnata, sarà all'altezza del compito? Sarà in grado effettivamente di valorizzare il talento, di proiettarlo fin da subito verso una dimensione manageriale di alto livello o questo talento rischia di ritrovarsi a fare fotocopie, telefonare ai clienti, sfogliare cataloghi e a mandare e-mail dal blackberry? Se voglio Giotto nella mia azienda, che il suo manager sia almeno Cimabue!

Nel caso in cui, invece, avessi bisogno di un Mozart, devo fare in modo che il suo manager non sia l'invidioso Antonio Salieri, ovvero un personaggio competente ma troppo competitivo all'interno dell'azienda e che rischia di mettere il bastone tra le ruote al neoinserito. Senza tali delicate attenzioni, rischio di buttare letteralmente dalla finestra un sacco di soldi per poi vedere, da quella stessa finestra, il "mio" talento che dopo un anno o poco più se ne va sconsolato e magari anche molto irritato. Queste riflessioni sul concetto di talento ci fanno essenzialmente comprendere che la priorità non è tanto la ricerca dell'eccellenza dall'esterno quanto piuttosto la creazione di eccellenza all'interno dell'organizzazione. L'employer branding se lo possono permettere soltanto quelle aziende che hanno già creato condizioni di eccellenza all'interno dell'organizzazione. Bisogna prima di tutto mettere a regime l'organizzazione in termini di efficienza, efficacia, etica ed economia e poi pensare alla fase successiva di uno sviluppo qualitativo affidato a talenti esterni da attrarre e fidelizzare. Oggi il concetto di fidelizzazione è diventato un ossimoro. Nell'epoca del temporary management, della flessibilità e dell'outsourcing, ragionare di fidelizzazione e di lungo periodo provoca quasi delle schizofrenie. Eppure, tra le caratteristiche degli attuali scenari socioeconomici, spicca proprio quella della necessità di abituarsi a convivere con gli ossimori, con prospettive che rimandano più alle figure di Escher che alla geometria di Euclide.

Anche il concetto di senso di appartenenza oggi è decaduto. Conviene molto di più ragionare di senso di gratitudine verso l'azienda, di stima e riconoscimento verso i capi o verso l'imprenditore piuttosto che insistere sulla vecchia immagine dell'azienda come "famiglia da onorare". Se oggi è in forte declino il concetto di famiglia tradizionalmente inteso, figuriamoci se può reggere l'immagine dell'azienda come "famiglia". Questo invito al cambiamento di mentalità vale soprattutto per le piccole imprese a conduzione familiare: modernizzate la visione manageriale della vostra azienda, considerandovi una squadra che lavora e non un "famiglia". Tale visione consente di evitare tutte quelle ambiguità e quegli intrallazzi emotivi tipici di dinamiche basate su una eccessiva amicizia e/o su un modo di intendere e di vivere i rapporti sul lavoro che alla fine non risulta funzionale al raggiungimento dei risultati attesi. Nei momenti di crisi in particolare e nella vita di tutti i giorni in generale, la leadership conferma dunque il suo primato di "fattore critico" nella gestione delle persone, soprattutto di quelle "talentuose". Sicuramente, la ricerca della "talentuosità" nelle persone di cui già disponiamo in azienda è un efficace antidoto al talentismo, inteso come l'insieme degli stereotipi e delle idee sbagliate riguardo il concetto di talento. Possiamo anche pensare di invitare Mr. Crocodile Dundee a stare a New York ma se non creiamo prima le giuste condizioni di inserimento ed integrazione, se ne tornerà a vivere in Australia.

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