Preparare l’HR al “dopo”

Dentro la battaglia collettiva contro il nemico invisibile che infetta il mondo, ciascun professionista, al lavoro, ne combatte un’altra, individuale, per fare nel proprio piccolo del proprio meglio. E meglio, in circostanze come queste, può voler dire anche soltanto mettersi lì e capire. Ovvero cogliere i piccoli, grandi insegnamenti che questi giorni inediti, passando, ci lasceranno in dote.

 

Perchè non c’è dubbio che dovremo abituarci a uno scenario inedito, d’ora in avanti. Come ogni tornante della Storia, anche questo sarà ricordato come un momento spartiacque. Una fase cerniera, che per certi versi segnerà la fine dell’età dell’innocenza per moltissime imprese italiane. E di conseguenza anche per chi, in quelle imprese, si occupa di risorse umane.

 

Ma non è detto che inedito voglia dire per forza peggiore. Anzi. Basti pensare alla facilità con la quale, uno dopo l’altro, stanno venendo via i veli di ipocrisia che in passato hanno coperto aspetti anche centrali della sfera professionale di milioni di italiani: dall’organizzazione del lavoro al ruolo del capitale umano, dalla digitalizzazione dei processi fino al people management.

 

Insomma siamo già di fronte a una evidente divisione tra un “prima” e un “dopo”. Farsi trovare pronti quando quel dopo sarà adesso dovrebbe essere il primo dei pensieri di ogni specialista di human capital.

 

Ma da dove ripartire, allora? Dalle poche cose imparate fino a questo momento. Poche, va bene, ma sufficienti a innescare almeno uno straccio di riflessione sull’HR che ci aspetta.

 

Il ricorso spinto allo smart working da parte di decine di migliaia di aziende in tutto il paese, per dire, va considerato come il primo segnale in questa direzione che l’emergenza COVID-19 ci lascia. La riluttanza che da noi moltissime organizzazioni opponevano a una gestione più agile del lavoro è stata spazzata via in meno di tre settimane. Dove non hanno saputo convincere statistiche incoraggianti o esempi virtuosi, a dimostrare i benefici diretti dello smart working c’è riuscita la paura del contagio. Sarà pure deprimente uno scenario in cui è lo spettro di un’epidemia a dettare l’agenda di una fetta produttiva del paese, ma se il risultato è un passo deciso verso un mercato del lavoro più evoluto, ce lo facciamo andare bene lo stesso.

 

Un’altra piccola lezioncina – piccola si fa per dire – che questa epidemia ci sta lasciando in consegna, riguarda la leadership. Circostanze straordinarie come quella che ha attraversato il paese nelle scorse settimane di solito producono diversi effetti collaterali. È andata così anche stavolta. E uno di questi riguarda la “selezione naturale” innescata dentro e fuori dai team di lavoro. Si è capito, cioè, con maggiore evidenza, che gestire un team vuol dire molto di più che saper rivolgersi a più di una risorsa contemporaneamente. Ma significa, tra le altre cose, ad esempio, assicurarsi di avere sempre davanti agli occhi una visione globale del contesto – la famosa big picture -, e mettere sullo stesso piano tanto le esigenze di business continuity quanto quelle di people management.

 

Altro bell’insegnamento è quello che, volendo, ci si riporta a casa in ottica employer branding. L’emergenza cui si sta facendo fronte ha posto molte delle imprese italiane davanti a un bivio: di qua la tutela del capitale umano, di là la salvaguardia del business. Domanda: possibile che i due aspetti non coincidano in nessun caso? Certo che sì, ma il Coronavirus si è dimostrato non essere quel caso. Ecco perché, un po’ per l’incertezza generalizzata del contesto, un po’ per la delicatezza della circostanza sanitaria, un po’ pure per la rapidità con cui si è dovuto agire, ci si è trovati di fronte a casi in cui molte organizzazioni, nella scelta su cosa concentrarsi prima tra business continuity e capitale umano, hanno mancato l’uno e l’altro proposito.

Al contrario, quelle imprese che non hanno avuto incertezze su cosa portare prima “in salvo”, in questo incendio delle certezze che è stato (è e sarà) il Coronavirus per gli specialisti HR, avranno presto ragione di vedere premiata la propria people first strategy in termini di employer branding.

Visto da quella prospettiva, il “dopo” promette di fare parecchio meno paura.