Per motivare i quite quitters all’HR servirà più di un buono stipendio

Diciamo “Great Resignation” e siamo convinti di poterci far stare dentro tutto. Ma non è così.

Ai talenti persi per strada, le organizzazioni devono infatti anche aggiungere la difficoltà di motivare i quite quitters. E farlo, per di più, in un momento tra i più complicati di sempre per le economie globali e quelle aziendali.

Continuare ad attrarre i propri talenti, e non solo attrarne di nuovi, è la vera sfida che impegnerà le divisioni HR nel prossimo futuro. Una sfida che dipenderà molto da quanto queste sapranno interpretare e comprendere i bisogni psicologici dei collaboratori. Trasmettendo loro un significato legato alla propria presenza nell’organizzazione in grado di andare oltre il rapporto economico.

Dopotutto, come dice anche la giornalista Ally MacDonald in una bella analisi sulle cause all’origine del quite quitting, le imprese oggi non possono più ignorare che ogni nuovo assunto è sottoscrittore di due contratti con la propria azienda: uno ufficiale, l’altro psicologico. E tra i due, oggi, è il secondo a valere di più.

Un investimento emotivo per motivare i quite quitters

Per troppo tempo, infatti, le aziende si sono concentrate sull’aspetto contrattuale del rapporto di lavoro, ma oggi questo non basta più a motivare i quite quitters. Quello che serve è un investimento emotivo, ovvero la capacità di un’azienda di andare a ricostruire un tessuto relazionale con la propria risorsa.

La sfida, come si intuisce, sta tutta nella capacità di raccogliere e soddisfare i bisogni motivazionali di ciascun collaboratore (no, nessun errore: proprio ciascuno). E questo impone naturalmente un cambiamento radicale nella relazione con le proprie persone, sia a livello macro che micro:

  • Macro: perché le aziende devono essere in grado di trasmettere ai propri dipendenti il messaggio che ciascuno di loro è prezioso, mantenendo un approccio protettivo anche nei momenti più difficili.
  • Micro: creando un rapporto di reciproca responsabilità che aiuti i collaboratori meno motivati a trovare uno scopo nel loro lavoro. Il famoso contratto “psicologico” citato da MacDonald, per capirci.

Solo per citare qualche case history di successo: parlando di macro, bastano gli esempi di quelle organizzazioni che, durante i mesi più critici del post pandemia, hanno creato le condizioni per favorire una riduzione degli stipendi dei top manager al fine di tutelare la permanenza in azienda delle risorse contrattualmente più “fragili”. Le prime che altrimenti avrebbero prerso il posto come causa della contrazione del mercato. Con un doppio risultato positivo: niente tagli al personale e nessun collaboratore che possa sentirsi “agnello sacrificale”. A livello micro, invece, gli esempi arrivano dalla gestione delle relazioni quotidiane. Dall’apertura al dialogo a tutti i livelli, fino all’approccio a un management emozionale.

Manager alla ricerca della connessione perduta

La reazione istintiva davanti a fenomeni come great resignation e quite quitting, e spesso anche la più logica, è quella di mettersi le mani in tasca e risolvere tutto con un incentivo economico. Ma stipendi migliori hanno dimostrato di lenire solo superficialmente le ferite dei quite quitters.

Per motivare chi non si stente più in connessione con la propria organizzazione i soldi non bastano, serve mostrare quella organizzazione da un’angolazione diversa. E, per farlo, bisogna sapere da quale angolazione il collaboratore demotivato la osserva. Ecco perché i manager più illumiati dovranno saper interagire con i propri collaboratori, al punto da conoscerne punti deboli e quelli di forza, comprenderne le paure, ma soprattutto analizzare i momenti e le condizioni che li rendono più positivi – e quindi, in un certo senso, anche produttivi. Non scopriamo certo oggi, del resto, che i leader più capaci sono quelli dalla spiccata intelligenza emotiva.

Pagare i dipendenti in modo equo è solo un modo per dimostrare loro che sono apprezzati, ma è fondamentale trasferire loro anche uno scopo, oltre a un’idea di comunità in cui valga la pena continuare a investire il proprio talento.

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