Giovani a chi? Solo l’HR può ribaltare le gerarchie e aiutare le organizzazioni a trattenere i talenti

In tempi di talent shortage, per le organizzazioni trattenere i talenti non è più soltanto necessario per assicurare il mantenimento degli obiettivi di business, è diventato fondamentale per la loro sopravvivenza.

La domanda a questo punto può essere una soltanto: chi sono oggi “i talenti”? Di chi parliamo, veramente, quando ci riferiamo a questi professionisti che le organizzazioni non possono permettersi di lasciare andare? O di perdere, semplicemente, per gli effetti di quel calo di motivazione che abbiamo imparato a conoscere con il nome di quite quitting?

Trattenere i talenti: d’accordo, ma di chi parliamo?

Prima della pandemia, per una divisione HR trattenere i talenti voleva dire soprattutto una cosa. Questa: mostrare ai più giovani collaboratori – ovvero ai più freschi, aggiornati e motivati professionisti presenti sul mercato del lavoro – quante e quali buone ragioni ci fossero per ritenere la propria azienda la migliore su piazza. Per quale motivo? Per non permettere che questi giovani professionisti si lasciassero distrarre dalle sirene di altre organizzazioni. Tradotto: benefit più interessanti, contratti migliori e maggiori opportunità di carriera. E veniamo alla domanda: ma sono davvero solo loro, i talenti più giovani, che oggi rischiano di mettere in crisi l’organizzazione con le loro dimissioni?

Più di una ricerca ci dice che no, affatto. Anzi, ci dice che great resignation e quite quitting hanno mietuto vittime in maniera trasversale, senza distinzione di fascia di età o di genere. Per cui quando parliamo di “talenti da trattenere”, oggi, ci riferiamo indistintamente a tutti quei collaboratori ancora in grado di fare la differenza nell’organizzazione. Dai Baby Boomer fino ai Gen Z, le divisioni HR sono tenute a coccolare tutti nella stessa misura. Ma ognuno a modo suo. E qui veniamo al punto.

Perché se è vero che il calo di motivazione ha colpito in maniera indistinta tutte le generazioni presenti in azienda, le strategie HR per trattenere i talenti devono seguire logiche diverse. E tenere in considerazione le naturali inclinazioni di ciascuna generazione di professionisti coinvolta.

Aprirsi al confronto generazionale: anche questa è retention

Distratte da eventi ben più preoccupanti, molte organizzazioni non erano preparate al cambio generazionale che le ha interessate. E così con una velocità che non potevano aspettarsi hanno visto la forza lavoro acquisire una forte componente composta da Millennials e GenZ.

Nel contempo, con il cambio della composizione degli organici, sta emergendo una grande differenza tra i collaboratori più giovani e quelli che appartengono invece alle generazioni precedenti. Ed è una differenza che non attiene solo alle competenze tenciche, semmai a una skill molto soft: la propensione al confronto. A differenza delle generazioni che li hanno preceduti, infatti, i collaboratori più giovani sono più desiderosi di essere ascoltati, vogliono partecipare al dibattito relativo alle decisioni aziendali, sia che si tratti di suggerire miglioramenti o innovazioni, sia che si tratti di mettere in discussione stipendi e benefici come il lavoro flessibile; sia ancora esercitando pressioni su questioni più ampie, come i valori aziendali o la diversità e l’inclusione.

I nuovi entrati nel mondo del lavoro, rispetto ai colleghi senior, sembrano molto più a loro agio a parlare di work life balance, di equilibrio tra lavoro e vita privata, di burnout e mental-health, di equità e del tipo di aspettative che hanno per la loro vita lavorativa. Tuttavia, per portare il loro contributo devono affrontare i loro manager Gen X e Baby Boomers, che però sono cresciuti professionalmente con un’altra mentalità. Per buona parte di loro, solo chi si è “fatto le ossa” con la famosa gavetta ha chance di prendere parte alle decisioni che contano.

I tabù spazzati via da Millennials e Gen Z:

  • Accesso al dibattito sulle decisioni aziendali
  • Diritto al confronto anche con le figure più senior
  • Valutazione sui modelli organizzativi
  • Partecipazione a piani di welfareaziendale
  • Ambizioni professionali e cambi in corsa di percorso

Capite il paradosso? È spesso proprio il mancato accesso a questo genere di opportunità a rappresentare la ragione alla base del calo di motivazione che spinge i collaboratori più freschi e motivati alla fuga.

Come è cambiato il contesto nel tempo

La fotografia attuale però non è il frutto di un cambiamento improvviso. Già in passato una indagine tra i millennial – a quel tempo erano l’ultima generazione che si era affacciata nel mondo del lavoro – rivelò che il 90% di loro credeva che la leadership dovesse ascoltare le idee che arrivavano dal basso. Ora, tuttavia, il problema sta diventando ancora più evidente man mano che la Gen Z sta entrando in azienda. Almeno tre le ragioni che spiegano questa tendenza:

  • I giovani portano i propri valori in azienda per inclinazione naturale
  • Sta cambiando la relazione tra le persone e il proprio lavoro
  • Il patto azienda-collaboratore ora premia i secondi

Ma proviamo ad analizzarle caso per caso.

●     I giovani portano i valori in azienda per inclinazione naturale

Per prima cosa, i giovani lavoratori stanno portando i loro valori sul posto di lavoro per inclinazione naturale: sfrontatezza e naturalezza sono figlie di questi tempi, i nuovi lavoratori non hanno timore reverenziale e appena possono esprimono il proprio pensiero su temi anche delicati come l’etica aziendale o le posizioni politiche, ma anche come l’equità e l’inclusione.

●     Sta cambiando la relazione tra le persone e il proprio lavoro

Le priorità sono cambiate, i lavoratori di tutte le età stanno prendendo confidenza con concetti che non conoscevano come flessibilità e lavoro agile; allo stesso tempo, questi lavoratori sono consapevoli di avere altre opportunità se i datori di lavoro non li ascoltano.

●     Il patto azienda-collaboratore ora premia i secondi

I lavoratori oggi sanno che per le organizzazioni sostituirli è difficile e costoso. E questo gli consente di avere più coraggio nel pretendere che le loro opinioni contino.

Reverse mentoring, prove di dialogo tra generazioni

Una conversazione intergenerazionale è auspicabile in ogni organizzazione che punti a trovare nuova linfa. Per questo chi si occupa di risorse umane dovrebbe creare un ambiente di lavoro in cui le persone si sentano autorizzate a porre domande, ad avanzare richieste e soprattutto a offrire il proprio contributo di idee.

Una modalità per aprire un dialogo tra generazioni è senz’altro il reverse mentoring. Ovvero offrire ai collaboratori più giovani l’opportunità di esprimere il loro potenziale non contro, ma a favore delle altre generazioni in azienda. Se le organizzazioni sapranno intercettare questi bisogni all’interno della propria forza lavoro, e avranno la capacità di agire in questo modo, ne trarranno un enorme vantaggio anche in ottica retention. Almeno fin quando i millennial non arriveranno a dominare le posizioni dirigenziali e la Gen Z sarà stabilmente al lavoro. Ma a quel punto sarà già un mondo diverso.

Trattenere i talenti: così Monster supporta le aziende a evitare cali di motivazione

Il principio è semplice: per trattenere i talenti nelle organizzazioni bisogna metterli nelle condizioni di contare qualcosa. Il difficile, semmai, è la sua applicazione. Con questo articolo abbiamo provato a descrivere una delle ragioni alla base del calo di motivazione che sta spingendo sempre più professionisti a lasciare la propria azienda. E raccontato in che modo il reverse mentoring può essere una delle risposte. Ma per migliorare l’Employee Value Proposition della tua organizzazione affidati all’esperienza degli specialisti Monster. Il nostro team di consulenti HR saprà guidarti nella scelta delle migliori soluzioni per offrirti una strategia su misura per il tuo modello di business.