La DE&I ha bisogno di un manager: ecco il chief diversity officer

Un ruolo complesso, in un momento ancora più complesso. Si potrebbe riassumere tutto così. E sarebbe una semplificazione efficace, ma certo non aiuterebbe a capire come e perché il Chief Diversity Officer sia destinato a diventare nei prossimi anni una delle figure più importanti all’interno delle rinascenti funzioni HR.

Proviamo allora a spiegare il contesto in cui questo ruolo si inserisce, la domanda organizzativa a cui tenta di rispondere, ma anche le opportunità che offre e soprattutto i rischi a cui vanno incontro quelle imprese che scelgono di ignorare il rispetto della diversità e il bisogno di equità e inclusione che parte dalle proprie persone. Un bisogno, vale la pena ricordarlo, destinato a cambiare molti dei modelli organizzativi attuali. A cominciare dalla relazione tra azienda e collaboratori. E soprattutto, visti i tempi di talent shortage, tra azienda e futuri collaboratori.

Chief Diversity Officier: l’evoluzione della DE&I in azienda

Nata negli Stati Uniti in un momento in cui con diversità e inclusione ci si riferiva soprattutto alle politiche mirate al contrasto delle differenze di genere, di etnia e di orientamento sessuale, la figura del chief diversity officer ha conosciuto con gli anni una rapida evoluzione nelle organizzazioni di tutto il mondo. Un’ascesa impressionante quanto la sensibilità con cui sempre più individui, spinti anche da ciò che accadeva al di fuori delle proprie aziende, hanno iniziato ad affrontare il tema della discriminazione – o dell’accettazione della diversità, per meglio dire – in maniera attiva. Estendendo i confini della discriminazione a qualsiasi altro ambito della sfera umana: età, salute, ceto sociale, etc.

Una figura nata quindi con le migliori intenzioni, ma di cui molte organizzazioni non sembrano ancora aver colto le opportunità. Nonostante gli sforzi, infatti, non sono mancate in qualche caso le critiche a chi ha tentato di sfruttare questi temi per migliorare la propria immagine. Da qui la necessità per le imprese di trasformare la diversity, prima ancora che l’inclusion, in un vero e proprio asset strategico. Un obiettivo reale, insomma, con KPI reali, con progetti e risorse reali, da affidare alle cure di un manager. E non proprio di uno qualunque.

Nessuna rivoluzione: è l’evoluzione della DE&I in azienda

Il dibattito sui temi della diversità, dell’equità e dell’inclusione in ambito professionale si è esteso così rapidamente su scala globale. L’aumento vertiginoso dei ruoli relativi a DE&I ne è stata la naturale conseguenza. Si è assistito quindi a un’ascesa del CDO all’interno della piramide aziendale. Ma sbaglia chi la considera una rivoluzione, è solo la naturale evoluzione della cultura della DE&I all’interno del contesto lavorativo.

Ma a che cosa dobbiamo questa consapevolezza? Principalmente a due fattori: uno esterno e uno interno al mondo organizzativo. La spinta esterna è venuta dai rapidi cambiamenti nelle aspettative della società in merito all’uguaglianza e alla giustizia sociale, che hanno evidenziato l’impatto delle scelte aziendali in ottica di corporate social responsibility. Mentre il fattore interno deriva più specificamente dalla crescente consapevolezza che la diversità costituisce un incredibile vantaggio competitivo per l’organizzazione.

Dove sono i CDO che servono alle imprese italiane?

Sulla carta, dunque, il ruolo da chief diversity officer non dovrebbe avere troppe difficoltà ad imporsi in azienda. Eppure non sono pochi gli ostacoli riscontrati anche all’interno di quelle organizzazioni che sembravano in realtà più pronte ad aprirsi a una figura del genere. Vediamo i tre principali:

  • L’ambiguità sul ruolo
  • I “pericoli” per la carriera
  • La scarsa considerazione della funzione

L’ambiguità del ruolo

Inutile aggiungere altro. In molte organizzazioni esistono ruoli che svolgono quasi più una funzione di employer branding che di reale supporto agli obiettivi strategici. E questa ambiguità si riflette poi sulle scelte che vengono prese (o non prese) e sull’operatività (o sull’inoperosità) della singola risorsa. Che rischia quindi di diventare un contenitore vuoto, o una bella intuizione, ma che non serve a nessuno.

I “pericoli” per la carriera

La mancanza di missioni definite può minare il percorso professionale di un chief diversity officer. Diverse analisi hanno raccontato come negli anni il numero di manager che si sono “riconvertiti” dopo un’esperienza da CDO sia aumentato in maniera esponenziale. Rappresentando, di fatto, una zona grigia nel loro percorso di carriera.

La scarsa considerazione della funzione

Per molte organizzazioni, avere qualcuno che si occupi a tempo pieno di DE&I in azienda è ancora troppo spesso considerato un lusso poetico invece che un imperativo strategico fondamentale per migliorare la vita in azienda dei collaboratori, raggiungere migliori obbiettivi di business e accrescere l’attraction dei nuovi collboratori.

Dietro il chief diversity officer: quando la pianificazione è tutto

Definire una strategia aziendale che porti alla nascita di un Chief Diversity Officer richiede uno sforzo progettuale importante. Le aziende intenzionate a concentrarsi sulla diversity dovrebbero prima di tutto porsi alcune domande cruciali, quali:

  1. Qual è l’obiettivo del mio CDO e come verrà misurato il suo impatto?
  2. Dove verrà posizionato il ruolo all’interno della struttura organizzativa?
  3. Qual è il profilo migliore in termini di conoscenza, abilità, competenze ed esperienza?

Le risposte ad ognuna di queste domande varia da azienda ad azienda, ma è possibile delineare una risposte-tipo per ciascuno di questi interrogativi. Proviamo:

1.   L’obiettivo

Il CDO non agisce da “cane sciolto”. La sua azione, infatti, dovrebbe inserirsi nel perimetro di una più ampia strategia DE&I. Internamente, ad esempio, le aziende possono contrastare le discriminazioni e migliorare l’inclusion creando un ambiente veramente aperto alla diversità e soprattutto fornendo un accesso equo a opportunità e vantaggi. Esternamente, possono concentrarsi sul miglioramento delle comunità attraverso iniziative di responsabilità aziendale e sociale.

2.   Il ruolo nell’organizzazione

Il raggiungimento degli obiettivi di Diversity Equity & Inclusion richiede un’attenta riflessione sulla collocazione del CDO nella struttura organizzativa. A livello globale, troviamo che i chief diversity officer tendono a sedersi due livelli al di sotto del CEO, spesso riportando al responsabile delle risorse umane. Negli Stati Uniti, tuttavia, dove la posizione è nata, i CDO riferiscono in genere direttamente al CEO. Questo per dire della centralità strategica (anche in ottica di employer branding) che viene riconosciuta a questa figura. Il CDO traduce quindi la visione più alta dell’azienda e implementa le iniziative per aumentarla di concerto con i manager delle singole funzioni, nonché con i colleghi specifici di DE&I e della divisione HR.

3.   La scelta del profilo

Mancanza di aspettative chiare, skills talvolta non in linea con conoscenza, abilità ed esperienza possono contribuire a un turnover relativamente elevato. Man mano che il ruolo è diventato più centrale nelle organizzazioni, si è fatto sempre più affidamento sulle esperienze precedenti della risorsa. I CDO dovrebbero intendersi di DE&I, ovviamente, ma non possono non aver assorbito i cardini della cultura aziendale, magari attraverso delle esperienze “orizzontali” all’interno dell’organizzazione. Lo stretto contatto con i colleghi impone poi eccellenti capacità di comunicazione e uno spiccato problem solving, tutte doti che chi ha frequentato il variegato mondo delle risorse umane e dell’employee relationship conosce fin troppo bene!

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