Per trattenere i talenti serve capire la differenza tra diversity e inclusion

Quasi come fosse tutta una parola, D&I viene spesso pronunciata nelle organizzazioni senza prestare attenzione alla enorme differenza tra diversity e inclusion. Eppure tra i due concetti che compongono questa definizione, entrata nel lessico delle direzioni HR con una rapidità straordinaria, esiste una distanza siderale. Siderale come quella che separa un problema dalla sua risoluzione.

Anzi, di più. Perché la differenza tra diversity e inclusion oggi non riguarda più soltanto la sfera generale di una maggiore giustizia sociale tra collaboratori della stessa impresa, ma investe in maniera più particolare il tema del benessere percepito dalle persone all’interno della propria organizzazione. Con tutto quello che ne deriva in termini di un migliore employer value proposition. E, a cascata, di un ritorno in ottica di attraction e retention dei talenti.

Senza contare, in aggiunta, l’importanza di questi fattori a medio-lungo termine. L’inclusione rappresenta infatti una delle sfide più importanti che attendono i responsabili HR nel New Way of Working. Proviamo allora ad andare all’origine del nostro ragionamento.

Capire la differenza tra diversity e inclusion

Per anni abbiamo pensato che, nella sostanza, non ci fosse tutta questa differenza tra diversity e inclusion. Abbiamo ritenuto che dicendo l’una comprendessimo automaticamente anche l’altra parola, e viceversa. Ma la realtà è cambiata in fretta. Le crescenti sensibilità delle nuove generazioni presenti nel mercato del lavoro, come Millennials e GenZ, ci stanno abituando a un esercizio diverso. Ci stanno infatti suggerendo di osservare ogni aspetto della vita d’impresa da tutte le angolazioni possibili. A vedere le cose non soltanto attraverso i filtri tradizionali con cui le abbiamo osservate fino ad oggi.

Solo per citare qualche esempio, pensate a cosa facevamo riferimento parlando di diversity e inclusion in ambito professionale fino a qualche anno fa. Senza il bisogno di scomodare analisi o statistiche particolari, possiamo dire che usavamo questi concetti iriferendoci soprattutto al genere dei collaboratori. Il cosiddetto “gender gap” è stato il più evidente simbolo della diversità e del bisogno di inclusione in azienda. Col tempo però la riflessione si è spostata sull’orientamento sessuale dei collaboratori. Infine qualcuno, tra i più sensibili, ha iniziato ad estendere giustamente il tema anche all’etnia.

Bene. Ora pensate un attimo ai tanti “strati di diversity” che può avvertire in azienda, ad esempio, una collaboratrice donna, nera, musulmana, e, per di più, in procinto di diventare mamma (o magari già madre). O un collaboratore uomo, gay e in cura perché malato cronico. Oppure come può sentirsi un caregiver rispetto a un/una collega più reattivo/a agli stimoli del proprio manager. O ancora a una collaboratrice anziana. O di qualcuno in condizioni socio economiche particolari. Potremmo andare avanti ma il senso è chiaro. Quanti “livelli di inclusion” servono per permettere a queste categorie di collaboratori di sentirsi perfettamente accolti e protetti dalla propria organizzazione?

Le principali cause della diversity in azienda:

  • genere
  • età
  • orientamento sessuale
  • etnia
  • differenze socio-culturali
  • stato di salute
  • condizioni familiari
  • carichi di cura

Ecco come la differenza tra diversity e inclusion può avere sfumature infinitamente maggiori di quanto non si immagini. E in che modo la capacità delle direzioni HR di comprende questa differenza possa realmente fare la differenza nel modo in cui l’organizzazione viene percepita al suo interno.

Quella inclusione che non lo era

Il più grande errore fatto negli anni dalle divisioni HR è stato dunque principalmente uno: pensare che la diversity si combattesse con una inclusione fatta solo di “coinvolgimento”. Caffè gratis, una bella sala relax, bonus per tutti, grandiosi team building, cose di questo tipo. Ma niente di tutto questo allevierà mai fino in fondo la sensazione di diversità avvertita da chi sperimenta sulla propria pelle una discriminazione più grande. Una discriminazione, ricordiamolo, che impatta direttamente la sua percezione in azienda e ne mette a rischio la permanenza.

I collaboratori che si differenziano dalla maggior parte dei loro colleghi per questioni come religione, genere, orientamento sessuale, background socio-economico o generazionale, spesso nascondono aspetti personali al lavoro per paura di conseguenze negative.

Questo rende difficile sapere veramente come si sentono e cosa vorrebbero dalla propria impresa. Il che li rende di riflesso potenziali quiet quitters o, peggio ancora, possibili candidati a ingrossare l’elenco delle vittime della great resignation.

Le tre strade per capire i collaboratori

Capire la differenza tra diversity e inclusion significa quindi prima di tutto capire le proprie persone. Conoscere cosa passa nella testa (e nel cuore) di queste risorse. Una organizzazione che vuole dirsi veramente “people oriented” non può rinunciare all’ascolto.

Per farlo, occorre aprirsi al confronto con la popolazione aziendale ed esistono soprattutto tre strade per attivare questa relazione:

  1. Partire dalle minoranze nelle survey sull’engagement
  2. Selezionare figure terze per condurre i focus group
  3. Gli one to one diventino più frequenti e più personali

1. Partire dalle minoranze nelle survey sull’engagement

Molte divisioni HR conducono survey annuali sul coinvolgimento dei dipendenti, ma la maggior parte trascura di analizzare i dati raccolti in base a criteri quali sesso, etnia, generazione, geografia, permanenza in carica e ruolo nell’organizzazione, sprecando così l’opportunità di identificare grandi problemi tra gruppi più piccoli.

2. Selezionare figure terze per condurre i focus group

I focus group sono un altro modo per ottenere informazioni più accurate su ciò che interessa ai dipendenti e sul loro sentiment generale. Ma anche in questo caso, senza la possibilità di andare veramente a fondo, il risultato sarà sempre superficiale. Un metodo può essere quello di far organizzare i focus group da altri manager, oppure da figure terze (eventualmente anche esterne all’azienda), per offrire ai collaboratori l’opportunità di parlare liberamente. In altre parole: adottare la politica del “fearless feedback”.

3. Gli one to one diventino più frequenti e più personali

Una discussione individuale con un manager può essere lo strumento più potente per scoprire cosa impedisce al singolo professionista di sentirsi veramente parte della comunità. Ma affinché questo genere di conversazioni si trasformi in uno strumento di analisi del sentiment efficace, il manager o la divisione HR deve dimostrarsi realmente pronta all’inclusione. Un modo per farlo è gestire queste conversazioni rifiutando un gergo e una impostazione impersonale. O instaurare un clima in cui condividere i propri pensieri e i propri sentimenti diventi la norma.

Capire la differenza tra diversity e inclusion aiuta l’organizzazione a diventare “people centered”

La centralità delle persone è la vera sfida delle direzioni HR nel New way of working. Per questo motivo, comprendere la differenza tra diversity e inclusion è uno dei pilastri per ogni organizzazione che ambisce a diventare veramente “people centered”. Da qualche anno, con la definitiva trasformazione in HR media company, Monster supporta le organizzazioni con questo obiettivo. Sostenendole con un approccio consulenziale personalizzato e finalizzato alla definizione di una Employer Value Proposition efficace attraverso innovative strategie HR in grado di attrarre i migliori talenti e di continuare a stimolare l’engagement dei propri collaboratori. Perché a volte farsi sceglie non basta, occorre farsi ri-scegliere.