La soddisfazione in azienda: compito del management o della funzione HR?

L’azienda è davvero responsabile della felicità dei propri collaboratori? Su domande come questa, il mondo del lavoro si divide da sempre in due fazioni opposte. Di qua quelli che: “certo, dalla retribuzione ai processi interni, dalle gratificazioni fino alle condizioni di vita al lavoro, l’azienda ha la piena responsabilità della soddisfazione di chi contribuisce al suo successo”. Di là gli altri, quelli per cui: “sì, lavorare in un contesto sano aiuta, ma la soddisfazione dipende da così tanti fattori che addossarli tutti alla responsabilità dell’impresa sarebbe ingiusto”.

Comunque la si pensi, quel che è certo è che una domanda del genere apre subito a un altro quesito: come si misura la soddisfazione sul posto di lavoro?

Quello che sappiamo, al riguardo, è che esistono degli indicatori che permettono di misurare il ROI del benessere in azienda. Strumenti che ci dicono che la felicità è diventata (o tende a diventare) una misura economica: collaboratori soddisfatti sono collaboratori felici; e collaboratori felici sono collaboratori più produttivi. Addirittura possiamo spingerci a stimare la misura di questo appagamento. Uno studio condotto da alcuni ricercatori dell’Harvard University spiega che un buon livello di soddisfazione vale, in media, il 31% di produttività in più per l’impresa.

Sappiamo cosa state pensando: sapere che la soddisfazione dei collaboratori generi indirettamente un ritorno economico per l‘azienda non ci aiuta a stabilire responsabilità in caso di mancanze. Sbagliato. Essere a conoscenza dell’esistenza di un nesso tra benessere dei dipendenti e produttività dell’impresa, in effetti ci permette eccome tutto questo.

Basta essere d’accordo su un fatto: se parliamo di produttività, la direzione aziendale non potrà mai dirsi completamente estranea al compito. Chi tiene il timone di un gruppo è il principale artefice del rendimento aziendale, indipendentemente dai fattori che lo generano. Che si tratti di accordi commerciali, appeal sul mercato o capitale umano, tutto ciò che impatta sulla produttività dell’impresa riguarda la direzione aziendale.

Chiaro però che, quando lo sguardo è rivolto ai vertici, è piuttosto di impulso che si deve parlare, più che di operatività effettiva, e di interventi “sul campo”. Riaccendere la fiamma dell’entusiasmo, trovare la giusta chiave di lettura per farlo, ritemprare lo spirito sopito di un tempo: ecco da dove parte il processo che porta a una maggiore soddisfazione al lavoro.

Ed è questo, di solito, il momento in cui entra in gioco il management. Il suo compito sarà infatti tradurre questo rinnovato slancio promosso dai vertici aziendali in una forma che, da un lato, incontri la volontà (e le possibilità) dell’organizzazione, e, dall’altro, soddisfi le aspettative e risponda ai bisogni dei suoi collaboratori. Vero e proprio “filtro” tra la direzione e le divisioni aziendali, quello dei manager resta il ruolo cruciale per garantire un maggiore benessere sul posto di lavoro.

Senza dimenticare che è nelle complicate relazioni manager/collaboratori che si dissipano le energie migliori in ufficio. Ecco perché introdurre procedure semplici, trasparenti e uguali per tutti può essere il primo passo verso una maggiore soddisfazione in azienda.

Da dove partire? Dalla base: ovvero da una maggiore attenzione per il lavoro svolto dagli altri e da un feedback costante sulle attività del gruppo; da una chiara definizione di ruoli e obiettivi a breve e medio termine; dall’incentivo di iniziative per lo sviluppo di nuove competenze di tutti i dipendenti.

In ultimo, poi, arriva la funzione HR. A questa figura spetta più che altro il compito di assicurare la messa in opera di quanto è stato proposto dalla direzione e successivamente tradotto in soluzioni concrete dal management.

Diversamente da quanto si immagini, non è dal professionista HR che dipende la felicità e la soddisfazione del singolo collaboratore; ma il suo compito resta comunque quello di creare le condizioni per favorire presenza e sviluppo di questi due aspetti. Sembra la stessa cosa, ma non lo è.

L’ambiente di lavoro, la gestione della giornata in ufficio, favorire l’integrazione e promuovere una migliore qualità delle relazioni all’interno dei team e tra le funzioni aziendali: eccoli alcuni degli aspetti che partecipano al benessere dei collaboratori, sui quali il professionista delle risorse umane ha il dovere di agire.

Come se già non bastasse, potrebbe obiettare qualcuno, il carico di responsabilità che l’evoluzione di questo ruolo, negli ultimi anni, ha imposto ai professionisti della categoria. E se per alcuni aspetti della sua professione il migliore alleato dell’HR è interno all’azienda, in qualche caso, come per la soddisfazione, è all’esterno che ci si può rivolgere.

Ed è così che stanno facendo molte aziende italiane, aprendo anche da noi la strada a una figura che negli Stati Uniti è una realtà ormai da tempo: il Chief Happiness Officer. Tradotto: il manager della felicità.

In capo alla divisione HR, quella del chief happiness officer resta comunque una figura ancora semi-sconosciuta nel mercato italiano. Forse anche per via di quella sua natura “ibrida”. Non del tutto un manager, non propriamente un HR, questa figura ha il “solo” compito di vigilare sullo stato di soddisfazione dei dipendenti in azienda, assicurandosi che tutte le condizioni per garantire il pieno benessere dei collaboratori siano rispettate.

Come un qualsiasi responsabile della sicurezza, ma per il quale l’unica emergenza è legata al sorriso dei propri colleghi