Il presenteismo? Una forma di fanatismo socialmente accettato che può nuocere

Nel paese che ha coniato definizioni come “il dolce far niente” di cui il mondo intero ci riconosce, oltre alla paternità, anche la migliore interpretazione possibile – e in cui le cronache non smettono di regalare racconti di furberie pittoresche messe in atto da malati solo immaginari, in un paese così, insomma, parlare di presenteismoovvero l’abitudine di andare al lavoro anche in comprovate condizioni di malessere – rischia di apparire piuttosto paradossale.

Eppure in Italia quello del presenteismo, questa forma di presenzialismo applicato alla sfera professionale, costituisce davvero un problema. E a dirlo sono i numeri. Quelli, nello specifico, del Global Pain Index, l’indagine diffusa di recente da Gsk Consumer Healthare, multinazionale britannica del farmaco, e condotta su un campione di oltre diciannove mila persone in più di trenta paesi del mondo.

Una survey molto dettagliata, che ha offerto dell’Italia, quanto al rapporto malattia-presenza sul posto di lavoro, un quadro a tinte alquanto fosche. Dal quale emerge chiara l’incidenza negativa di questo fenomeno sui processi produttivi delle imprese italiane. Rintracciabile in una netta riduzione della quantità e della qualità delle performance. Nel dettaglio, il 20% degli intervistati si dice insoddisfatto della propria prestazione sul lavoro, e il 30% afferma di non avere sufficiente concentrazione quando si reca al lavoro in non perfette condizioni di salute.

Dato significativo sebbene abbastanza scontato, che offre tuttavia spunti di riflessione interessanti tanto per i lavoratori quanto per le aziende. Con queste ultime costrette a prendere atto che, se è vero, come è vero, che l’assenza per malattia incide in maniera consistente sul rapporto costi-benefici alla voce “personale”, può essere valido anche il principio opposto. Vale a dire che non sempre un lavoratore malato al lavoro costituisce un vantaggio per l’impresa rispetto a un collaboratore che, in caso di malattia, preferisce rimettersi in sesto prima di tornare al lavoro.

Ma la faccenda si complica se possibile perfino di più se si valuta il presenteismo vestendo i panni del collaboratore. In questo caso l’incidenza di questo “fanatismo” della presenza al lavoro a tutti i costi produce effetti davvero nefasti. Misurabili, come abbiamo visto, a breve termine, con un aumento progressivo dell’insoddisfazione legata alle proprie prestazioni, ma anche a lungo termine, con un distacco e un disamore rispetto alla “causa aziendale”.

Quello della malattia, però, non è che uno dei tanti casi in cui il presenteismo rischia di costare caro tanto a chi lo pratica quanto a chi lo riceve. Anticipare di molto l’ingresso in ufficio; trattenersi al lavoro ben oltre l’orario consentito; non conoscere limiti di tempo per mandare o ricevere mail; non concedersi piccole pause durante il giorno; o considerare ferie e permessi come una specie di benefit cui godere solo in casi di estrema necessità, sono tutte fattispecie che rientrano di diritto nella sfera del presenteismo.

E questo per via del fatto che hanno tutte, in qualche modo, inoculato al proprio interno – alcune, certo, di più, altre meno – il virus di quel fanatismo che conduce, alla lunga, a una pessima immagine del “sé” professionale. Quando si è al lavoro solo fisicamente, ma psicologicamente si è assenti, si finisce presto per perdere il gusto del lavoro ben fatto. E questo, il più delle volte, si traduce con un risentimento reale nei confronti della propria azienda e dei propri manager. Dai quale ci si sente, se non proprio sfruttati, certamente non valorizzati nel giusto modo.

Tutta colpa di un mercato del lavoro che in Italia, a differenza di altri paesi del nord Europa, è profondamente radicato sulla cultura dello stakanovismo come viatico imprescindibile verso la riconoscenza. Quindi verso il successo professionale.

Ma, paradossalmente, una volta tutto questo ottenuto, le cose, se possibile, addirittura peggiorano anche. È così che le giornate di un manager si allungano e diventano infinite; che i confini tra la sua vita professionale e quella privata quasi scompaiono; e che, in sintesi, si alimenta questo circolo vizioso che fa a pieno titolo del presenteismo uno tra i più subdoli ostacoli al benessere al lavoro.