Flexible Benefits questi sconosciuti: così le aziende rinunciano a uno strumento che fa bene due volte
Sono tanti, li conoscono in pochi, e a usarli sono ancora meno. Eppure, numeri alla mano, farebbero un gran bene a tutti, dipendenti e aziende.
Davvero uno strano destino quello dei flexible benefits, nome articolato del cosiddetto “paniere” di beni e servizi non monetari che ogni azienda ha il diritto di offrire ai propri dipendenti a integrazione del reddito.
Un diritto, e dei vantaggi, che però, a quanto pare, sembrano lasciare indifferenti la maggioranza delle divisioni HR delle imprese italiane. E questo perché, strano ma vero, in molti casi manca una conoscenza approfondita delle reali opportunità che si celano dietro questo strumento.
Un paradosso finito nero su bianco anche nell’ultimo rapporto Welfare Index PMI – lo strumento creato nel 2015 da Generali Italia per monitorare l’andamento del welfare nelle piccole e medie imprese italiane – che ha confermato, tra le altre cose, come, a fronte di un lieve incremento dei valori rispetto ai dodici mesi precedenti, questa idea del “carrello della spesa” welfare da offrire ai dipendenti fatichi ancora moltissimo a guadagnarsi l’attenzione delle divisioni HR sparse lungo lo stivale. Solo il 5,8% delle aziende ha infatti ammesso di conoscerli e di farne uso.
Sono pochi insomma da queste parti i pionieri dei flexible benefits. E il più delle volte si tratta di gruppi stranieri che, avendo sperimentato con successo altrove l’adozione di formule simili, finiscano poi per replicare con favore l’idea anche da noi. Risultato: vantaggi diretti e indiretti per l’impresa che li promuove e per il personale che li riceve.
Il principio, dopotutto, è semplice. Una volta stanziato un budget complessivo e individuato un paniere di beni o servizi da offrire ai dipendenti, l’azienda lascia al singolo collaboratore l’opportunità di comporre il proprio “kit welfare” in maniera flessibile, appunto, ovvero secondo il proprio arbitrio, calibrando cioè la scelta sulle rispettive esigenze personali o familiari. Che poi, a ben vedere, sono più o meno quasi sempre le stesse.
Tra le soluzioni più diffuse e apprezzate dai dipendenti, si contano infatti polizze sanitarie e casse di previdenza complementare; rimborsi per spese scolastiche, asili nido e borse di studio per i figli; mutui e prestiti a interessi agevolati; corsi di lingua e altri corsi di formazione; semplici buoni acquisto e agevolazioni con cinema e teatri. E la lista dei desideri non si esaurisce certo qui.
Ecco perché ai dipendenti il flexible benefit piace. E le ragioni sono anche piuttosto evidenti: riducendo spese per beni o servizi ritenuti essenziali, il potere d’acquisto del dipendente cresce, e con lui il benessere del singolo lavoratore o del rispettivo nucleo familiare. Quello che è meno evidente, semmai, è come riusciranno le aziende che hanno dichiarato di non conoscere i flexible benefits a continuare a ignorare ancora a lungo uno strumento del genere. Specie alla vigilia di un’epoca fortemente caratterizzata dal nomadismo delle future generazioni di occupati, e dello straordinario sforzo di attraction e retention che ne deriva.
Non bastasse, a suggerire a buona parte dei professionisti delle risorse umane, se non di estinguere del tutto, quantomeno di colmare in parte il gap di conoscenza portato alla luce dal Welfare Index PMI, ci sarebbero anche ragioni di natura fiscale.
Non costituendo infatti una retribuzione vera e propria, piuttosto una integrazione allo stipendio a titolo di incentivo, sui flexible benefits non grava alcun tipo di onere contributivo o impositivo. Il che significa, in altre parole, che adottando i flexible benefits, alle aziende, in un colpo solo, riuscirebbe l’impresa di ridurre il famigerato cuneo fiscale e stimolare i dipendenti (reali e solo potenziali) intervenendo in maniera significativa sul proprio employer branding.
In un’epoca di vertiginosi equilibrismi tra aumenti del costo del lavoro e la certezza che il denaro non costituisca più il solo incentivo attorno al quale ruota l’interesse dei candidati, strumenti come i flexible benefits meriterebbero forse molto più che percentuali di interesse tanto risicate.